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seduttori e abbandonati

| danilo giaffreda

Lui, lo chef, fino a qualche tempo fa assorbito solo dalla sua cucina, oggi ha spesso un sito personale, twitta con i suoi follower e ha almeno un profilo su Facebook, dove posta compulsivamente i suoi piatti, artisticamente interpretati, e aspetta con ansia i click di nuovi proseliti.

Loro, i proseliti, si palesano all’unisono. E’ tutto uno slurp, gnamm, gasp, m’hai fatto venire fame, vengo a trovarti, dove stai, non vedo l’ora, sei unico, sei grande. Poi, senza neanche chiedere il nome del piatto, indagare sugli ingredienti e informarsi – così, per curiosità – spengono il pc e come se niente fosse infilano l’uscio di casa e se ne vanno in pizzeria o in trattoria a venti euro e passa la paura.

Lui, lo chef, ringrazia, controbatte gentile, minimizza con finta modestia ma è pieno di entusiasmo e di aspettativa, FB è una figata, tanti commenti, tanti amici, tutti potenziali clienti, l’anticamera delle stelle. Poi, solleva lo sguardo dallo schermo ingannatore e la sala, come sempre più spesso accade, è mezza vuota. Una manciata di coperti, nel migliore dei casi.
Sale l’angoscia. Tutta colpa della crisi, pensa. O della sfiga. O della gente che non capisce più niente. O delle recensioni farlocche su Tripadvisor. O delle partite su Sky tutti i santi giorni. O della paura della creatività, della ricerca, dell’innovazione in nome della difesa strenua della cucina di casa, della moglie, della mamma, della nonna. Insomma, tira una brutta aria.

Loro, i proseliti, predicano bene e razzolano male. Guardano Masterchef e Simone Rugiati, seguono corsi di cucina e diventano degustatori di vini, discettano di autoctoni, umami, chilometro zero, identità, rispetto, local, global, glocal, poi giù a rimpinzarsi di qualsiasi cosa purchè costi poco o purchè non ci sia nessuno a stressarti intorno o purchè si sia uno di quei posti multi-tasking che vanno tanto di moda, quelli dal panino al supremo tannino, tanto per intenderci.

Lui, lo chef, insiste, si eccita, blandisce food-blogger e giornalisti e condivide senza discernimento qualsiasi recensione, segnalazione, trafiletto, marchetta che parli di lui, e se è timido o non ha tempo e non ce la fa a stare dietro – e invano – ai proseliti che crescono e si moltiplicano costringendolo a moltiplicare anche i profili, chiede aiuto ai maghi della comunicazione, agli smanettoni del web, quelli che sanno tutto su come, quando e cosa pubblicare e il più delle volte trasformano questi profili in algidi sepolcri privi del minimo appeal, quelli che nel forfait ci infilano anche il food-photographer per le immagini a corredo funebre e che sono seriamente convinti che basta essere glam, confidenziali e anglofoni per far proliferare i “mi piace”.

Loro, i proseliti, rimangono clienti virtuali dello chef, dagli chef non ci vanno quasi mai e se ci vanno, poi, segretamente – ma mica tanto –  ne parlano male, dicono che si mangia meglio in trattoria o da quelli che cavalcano il nuovo localismo e confezionano con astuzia piatti piacioni che rassicurano e danno l’ebbrezza della panza piena low-cost, i più raffinati si spingono sulla pizza gourmet dove alla fine spendono comunque tanto senza accorgersene,  annebbiati da alveoli, presìdi, raffinate pummarole  e simil-patanegra.

Lui, lo chef, nicchia e attende tempi migliori, s’arrovella su formule risparmiose cercando di salvaguardare la qualità,  investe – e s’indebita – sul decoro e sulla cantina, cerca di fare rete con i suoi colleghi sul web ma alla fine è una litania di lamentele e quindi meglio smammare, partecipa agli eventi sponsorizzati dalle istituzioni dove tutti guadagnano tranne lui, s’inventa lui stesso eventi ma poi con i costi non ci sta, aspetta fiducioso le visite degli ispettori per provare l’ebbrezza di vedersi epigrafati una volta all’anno su più guide, anche le più sconosciute, ma nel frattempo si avvolge inesorabilmente a bozzolo sulla sua bravura – perché spesso è anche bravo – e rischia la paralisi.

Tra loro, i proseliti, ci sono anch’io. Ma dagli chef ci vado, ci parlo e oramai ne conosco tanti. Sono anni che giro per ristoranti e so cosa significa portare avanti un ristorante, la fatica, la rabbia, lo scoramento, la voglia di mollare, ma anche la passione, la forza, il coraggio, la determinazione.
So anche che adesso per alcuni passano settimane senza vedere un cliente, per altri c’è sempre il tutto esaurito. Nonostante la crisi o alla faccia della crisi.

Bravi tutti, sia quelli con la sala vuota che quelli più fortunati. Poi indago, confronto e vado a fondo, scopro che non si tratta di fortuna o di bravura, ma semplicemente di un approccio diverso col proprio lavoro, di una maniera diversa di porsi con la clientela, della giusta importanza data a giornalisti e food-blogger, del coraggio di non farsi intimorire da sicumere e soliti nomi, di non essere sempre e costantemente in ansia da prestazione, di considerare la propria come una professione uguale a tante altre da portare avanti con modestia e voglia costante di crescita e miglioramento, rispettando il passato ma guardando al futuro, sfruttando certamente il web ma senza rimanervi impigliati e condizionati.

Lui, lo chef, torni in cucina a sedurre con i sapori, i profumi e la capacità, se ce l’ha, di smuovere sentimenti e ricordi.

Alla sala ci pensino maitre e sommelier, possibilmente pronti a sorridere, parlare, raccontare e saper anticipare le gioie che verranno da cucina e cantina senza apparire più servi muti e compassati in attesa dell’entrata in scena di sua maestà. Alle fotografie, se ne abbiamo voglia, ci pensiamo noi, proseliti in carne ed ossa e non solo virtuali. Se son rose, certamente fioriranno.

Foto: un’opera dell’artista australiano Ron Mueck in mostra a Parigi, credits THOMAS COEX/AFP/Getty Images

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