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l’orto di giulia

| danilo giaffreda

E’ bastato un sms per mobilitare amicizia e ospitalità. “Sono dalle vostre parti. Mi piacerebbe rivedervi” è stato il message in the bottle accolto senza battere ciglio, senza compulsare sulla tastiera perplessità o menzogne.

“Stasera incasinati, ma domani a pranzo un Big Max al Calandrino o un piatto di Fusilloro con il nostro pomodoro di Veggiano” è stata la risposta immediata. E la scelta, altrettanto immediata, è stata per la pausa pranzo rigorosamente casalinga. Vuoi mettere i pomodori coltivati con amore sul border-line tra Vicenza e Padova manco fossero figlioli da allevare?

L’occasione dei tre piccioni con una fava era di quelle irrinunciabili. Rivedere gli amici, visitare un orto autarchico, assaggiare una pasta d’eccellenza con un pomodoro a chilometro zerissimo. Tutt’e tre queste cose insieme è difficile che ricapitino, specie se si confida anche in qualche souvenir acquistato nei tanti e frequenti pellegrinaggi gourmet dei miei ospiti in giro per la Penisola.

La terra orizzontale dove arrivo mi ricorda tanto la mia Puglia, ma gli accenti che mi accolgono mi riportano alla realtà. Niente vocali serrate, niente retaggi di dominazioni francesi o spagnole, ma una musicalità, una bonomia, un’avvolgente sincerità che fa subito rima con quanto già apparecchiato a tavola. Un bel tagliere in legno con alcune chicche che aspettavano l’occasione speciale per essere condivise: la sopressa home-made, un Asiago che solo sull’Altopiano e non altrove, un gorgonzola di capra, una candida tuma e un lonzino abruzzese. Il souvenir, per l’appunto.

Mentre la pasta è ancora in cottura anticipiamo il giro nell’orto a stomaco vuoto e allora il caldo, i profumi dei fiori e dei frutti e la vita segreta degli insetti al massimo dell’operosità in questa estate prematura sono quasi da capogiro. Intorno occhieggiano, in piena metamorfosi da germoglio a turgido frutto, i gelsi, le primissime pere, le minuscole annurche – tentativo non ancora perfettamente riuscito di delocalizzazione – le ciliegie, le mele cotogne, le prugne “goccia d’oro”, i fichi, i frutti del sorbo dell’uccellatore, i primi cenni di grappoli sulle viti, tutti protesi alla luce, al caldo, alla vita. Quella bella di maggio, tutta carica di energia e promesse. E poi le insalate, esuberanti e carnose. Tutte diligentemente in fila, tutte in gran forma. C’è veramente di che essere orgogliosi.

Il piatto a tavola ci richiama all’ombra e al fresco di un patio coperto che è una sorta di social club da comune 2.0; il casale è equamente diviso con amici e ognuno ha la sua casa, la sua intimità, i suoi spazi ma, se si vuole, in questo baricentro c’è una tavola comune da condividere con gli amici, un grande camino, la dispensa e un’aria da decompressione che aiuta a ritrovarsi e rilassarsi dopo le lunghe e dure giornate di lavoro.

Il pomodoro che colora in maniera decisa i Fusilloro è quello di Veggiano, viene cioè dall’orto fuori casa e non ha nulla da invidiare a quelli del meridione solatìo, specialmente per chi da quel meridione arriva e sa perfettamente come dovrebbe essere un pomodoro. Non è una coltivazione facile, mi spiegano, c’è tutto un trattamento particolare per drenare l’acqua in eccesso, quella che rende blando il sapore, ma alla fine il corpo e il sapore vengono fuori prepotenti, specie in abbinamento a una pasta di rango.

Ma è il tagliere il clou dell’incontro, il desiderio intimo di ciascuno di noi mentre disquisiamo di paste griffate e pomodori perfetti. L’attacco è alla sopressa, neanche a dirlo. Grana perfetta, equilibrio tra grasso e polpa, un profumo che resuscita i moribondi. Consistenza un po’ lenta all’interno e troppa secchezza in superficie, lamentano gli esperti al mio fianco. La vecchia dispensa l’hanno pavimentata con il cemento e non c’è più la giusta umidità di una volta. Faccio finta di niente e taglio, neanche in diagonale, come ebbe a spiegarci una volta un grande chef. E poi tocca all’Asiago invecchiato. Poesia pura, niente a che vedere con quanto spacciato per tale lontano dall’Altopiano. E poi la cremosità del gorgonzola erborinato di capra, la fresca tuma Langarola di Occelli e infine, a coronamento, il souvenir, il lonzino di Montorio al Vomano: il racconto senza parole delle montagne teramane, della pietra dei suoi borghi, dell silenzio delle valli. C’è tutto questo e altro e non mi viene neanche lo scrupolo di controllare l’orario del mio volo di rientro tanto sono rapito.

All’annuncio del caffè, però,  l’ansia mi assale, scopro di essere già mezz’ora in ritardo e la strada per l’aeroporto lunga, lunghissima. Saluto concitato, faccio promesse forse da marinaio, ci si rivede e ci si risente, e poi fuggo, letteralmente, con la metà inferiore del mio corpo fortunatamente ancora allegra.

L’ansia di non farcela, l’ammonimento continuo sui limiti di velocità e la segnalazione spesso fittizia di autovelox mi fanno rimpiangere presto l’oasi di Veggiano, quella bella terra di confine dove due innamorati, uno da Vicenza e l’altro da Padova, hanno deciso che si può e si deve vivere bene, anzi meglio. Grazie ancora Giulia e Sandro, mi sa che torno presto a trovarvi.

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