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le nostre vite senza domani

| danilo giaffreda

L’ultimo libro di Edoardo Nesi, “Le nostre vite senza ieri”, è un libro palindromo. Puoi incominciare a leggerlo dalla fine, dal mezzo o, convenzionalmente, dall’inizio, senza che cambi una virgola della sua essenza e della sua dirompenza. Ci trovi, mescolati senza un senso apparente, l’indimenticabile Ivo Barrocciai de “L’età dell’oro”, strascichi di profumi e sentimenti da “Storie della mia gente” – un libro che ho amato visceralmente – e piccoli e luminosi e illuminanti squarci di vita vissuta, di quotidianità che noi tutti condividiamo, raccontati come sempre in maniera epica e avvolgente.

Ogni capitolo è un salto nel vuoto, un capitombolo nel nero e denso mondo delle emozioni, è un’apnea nel nostro io più recondito, quello che spesso sopprimiamo, quello che non facciamo mai parlare per paura di sbagliare, quello che tumulta in petto e non lo squarcia mai.

Ogni capitolo è un resoconto del suo e nostro passato, perché Edoardo siamo noi, parla per noi, è uno sguardo lucido e implacabile e spesso utopistico sul futuro, è il futuro che i migliori di noi auspicano, è il futuro che ognuno di noi sano di intelletto e dotato di buonsenso tenta di immaginare.

Ogni capitolo è una vivisezione del passato e un’analisi precisa del domani, un’ipotesi del domani, di come debba necessariamente essere il domani per poterlo definire tale, a condizione che quel passato così bello, così ingombrante, così spesso, così plasmante la nostra vita, siamo disposti a dissolverlo, a rarefarlo, a scaricarlo dalle nostre spalle perché smetta definitivamente di legarci al presente, a questo presente assente, a questa attesa snervante di epifanie.

Ogni capitolo è una esigenza vitale di futuro, è necessità di ossigeno, è poesia che condensa e brucia in un attimo le nostre passioni, i nostri amori, i nostri sogni, le nostre rabbie, i nostri misteri, il nostro bisogno primario e insopprimibile di bellezza, verità e armonia.

Edoardo si lascia trafiggere di dolore dalla vita di tutti i giorni, ma lo trasforma in materia viva e palpitante su cui costruire un modo diverso di essere per continuare a esistere. Sogna a occhi aperti ma sa che i sogni durano una notte e poi si dissolvono e allora li trasforma in fondamenta per un futuro possibile. Ama sua moglie, i suoi figli, la sua gente, in maniera animale, viscerale, possessiva, ma sa che questo amore li ucciderebbe e allora lo trasforma in tessuto connettivo, in rete protettiva, in placenta che deve necessariamente avvolgere la nostra sopravvivenza.

Si piange e si sorride a ogni chiusura di capitolo, si trattiene il respiro per non perdere una parola, un’immagine, un profumo, una luce, una nota, una lacrima di tutto quello che viene raccontato, ricordato, inventato, vagheggiato. Bisogna far passare del tempo tra una storia e l’altra, secondi, minuti, ore, forse giorni, per placare il dolore e la rabbia e l’intensità delle sensazioni. Bisogna bere, suggere, respirare profondamente ogni singola parola e farne ricchezza per i giorni che verranno, perché se è vero che le nostre vite dovranno ormai essere senza ieri, è ancora più vero che appaiono sempre più senza domani.

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