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kind of blue: il clandestino di moreno cedroni

| danilo giaffreda

Qui il blu non è un’opinione, ma un invito a guardare oltre. Oltre il piatto, oltre le finestre, fin dove si confonde, il blu. Non è un invito alla distrazione, anzi. Semmai a guardare il piatto sotto un’altra luce, a considerarlo da altre prospettive, a gustarlo con tutti i sensi, a viverlo come un’emozione pura, senza sovrastrutture. Tu, il blu e quello che mangi, il resto è azzerato. Anche l’intervento dei camerieri – garbati, solerti e sorridenti oltre misura – è ridotto al minimo per lasciare spazio allo spettacolo. Un’introduzione breve del piatto, un consiglio puntuale sul bere una volta chiarite preferenze e orientamenti e poi si esce di scena, lasciando la parte dei protagonisti all’ospite e alla scenografia mutevole del mare e del cielo. Rientrare, prima dei tempi tecnici, che qui sono i cambi dei piatti e dei vini, o il loro refill, non serve; a prendere e restituire gratitudine e beatitudine è solo il mare, la sua gamma di blu, il suo infinito.

Quest’anno, non a caso, il tema su cui imbastire la sceneggiatura del menu, è stato il cinema, omaggiato con la scelta di pellicole iconiche della sua storia più o meno recente, e niente più del cinema è puro spazio dell’immaginazione, fotogrammi storie e personaggi in cui immedesimarsi, proiettare se stessi e le proprie vite per viverne altre, anche solo per il tempo effimero della sua durata. Due ore, talvolta tre. Raramente oltre. Il tempo esatto della permanenza qui al Clandestino, dall’arrivo – esaltante e pieno di aspettative  – al momento del congedo, quasi sempre suggellato dalla promessa del ritorno, un ritorno che è nostalgia e sogno, un appuntamento annuale che da rito è diventato mito.

I nomi dei film che titolano i piatti: Sex and the city, Donne sull’orlo di una crisi di nervi, Pomodoro verdi fritti alla fermata del treno, Harry ti presento Sally, Big Night, Ratatouille, Amore, cucina e curry e Ricette d’amore, omaggiando pellicole consolidate nel nostro immaginario cinematografico, sono solo un pretesto. Ingredienti, abbinamenti, colori, sapori e texture si limitano a prendere spunto da fotogrammi e gag, ne usano lo stesso linguaggio – accessibile ai più, comprensibile, universale, non si spiega diversamente lo stato di beatitudine collettiva che attraversa la sala – ma veleggiano poi liberi da tendenze e dipendenze sulle onde di una contemporaneità assoluta.

I piatti che scorrono in piano sequenza su un blu appena increspato dal vento di tramontana : il cocktail a base di Cointreau, vodka e more fermentate da shakerare in autonomia; il gazpacho con ricciola, melone, rafano e uova di pesce volante;  i pomodori verdi fritti con capesante, brodo di fichi e burrata o  il riso ai tre sughi, pesto, frutti di mare, funghi e mango fermentati (da bis, tris, il mio preferito e, come scoperto dopo, quello dalla gestazione più lunga e complessa prima della messa a punto), tratteggiano i caratteri di una maniera oggi più che mai necessaria di intendere e offrire la ristorazione: una sceneggiatura ferrea e una regia di talento a servizio di una cucina finalmente ludica e disincantata.

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