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colori proibiti

| danilo giaffreda

Scegliere un ristorante a Milano per decidere chi far entrare nella mia play-list dei seduttori ai fornelli è impresa più che ardua. Con tutti questi stellati c’è solo da essere intimoriti, si rischia una serata in soggezione reverenziale, oltre che clamorose delusioni. E allora, in una città internazionale come questa, piena di ristoranti etnici, fusion o perlomeno eclettici, perché non tradire gli italici eroi e farsi sorprendere, invece, da sconosciuti immigrati ancorché di lusso?

Non esito molto e, dopo aver sbirciato, incuriosito, attraverso la cortina metallica di pregiata fattura al suo ingresso, decido infine di tradire Milano e di varcare la soglia del magico Zero in Corso Magenta.

Pare che il nome sia stato scelto perché è una parola intelligibile in tutte le lingue, ma per me significa l’azzeramento totale del mondo esterno e l’approdo in una nuova e diversa dimensione.

All’ingresso, infatti, lo straniamento spaziale e temporale è totale ed è abilmente ottenuto con profondità di prospettive, riflessi ingannevoli e finte trasparenze, tra cristalli fumè a cristalli liquidi, lastre di diafano onice retro-illuminato, legni esotici e modernità vintage.

Evito l’isolamento ai tavoli e mi accomodo al banco del sushi, dove l’addetto alla preparazione del pesce, compreso e serioso, lavora assorto a filetti rosati e carnali d’ogni ben di Dio marino, li sporziona abilmente e li impila con rigorosa geometria, pronti per essere trasformati in autentiche delizie.

Visibilmente eccitato da tutto questo voyeurismo a stomaco vuoto, decido velocemente per la degustazione chiamata “sushi zero misto”, accompagnata da tè verde bollente, e il vortice del piacere si spalanca sotto i miei occhi.

Prima, uramaki da srotolare e riarrotolare su eterea sfoglia di alga nori per poi intingerli nella salsa di soia, mangiarli in un sol boccone, sensualmente, senz’ausilio di bacchette: il sapore è di prorompente sapidità, dolcezza e qualcos’altro di indefinibile al tempo stesso, shibui lo definiscono i giapponesi, un amalgama ammaliante di consistenze e gusti.

Poi, è tutto un rutilare di colori, forme, materie, tessuti edibili e impalpabili, layer di sapori indecifrabili, insoliti, non appartenenti al nostro codice di riconoscibilità e familiarità, fatto di sapori rassicuranti e spesso convincenti solo in quanto tali.

Eppure, questo mondo apparentemente lontano, spiegabile solo per riconoscibilità dei pesci impiegati, diventa, al palato, al cuore e all’addome, immediatamente vicino, trascinante, commovente, un rapimento estremo dei sensi sinora sconosciuto solo perché sopito nella nostra memoria del gusto. Ecco che, allora, i gusti estranei da ostili si fanno seduzioni, le consistenze da eteree si fanno palpitante materia viva, i profumi delle spezie da stordenti diventano tutt’uno con la musica che lieve, discreta, come velluto armonico, si diffonde per la sala e rende l’atmosfera carica di tensione erotica.

E’ difficile concentrarsi su un piatto, ricordarsi i nomi, i carpacci e le uova di quali pesci, gli appellativi delle salsine, le diavolerie delle spezie utilizzate; la memoria si perde, non fa in tempo a registrare, immagazzinare, il piacere supera il dovere di cronista, la sensualità pervade mente e corpo, annulla barriere e pregiudizi, ci si perde ad ammirare il verde topazio delle uova di pesce volante, il rosso sanguigno che screzia i gamberi siciliani, l’arancione vivo del salmone, il rosso pompeiano del tonno, il verde serico dell’avocado che sormonta il sashimi, il bianco candido e virginale del riso che accompagna ogni sorta di perdizione edibile che si avvicenda al mio cospetto.

Qualcosa tuttavia emerge, sommerge il tessuto cromatico, gustativo e sensoriale, il tappeto prezioso che mi ha avvolto arrotolandosi intorno al mio corpo e annullando ogni mia possibile reazione, in una sorta di paralisi, di catalessi, di azzeramento di emozioni per troppa emozione.

Si chiama “salmone in salsa teriyaki con carpaccio di zucchine crude e germogli di soia”, che detto così dice poco, ma che quando appare al tuo cospetto, già per quant’è bello, fantasmagorico e gioioso, capisci che qualcosa di diverso e nuovo sta per avvenire nella tua storia di frequentazioni di santuari del piacere gastronomico.

Ma tutta questa apparenza è nulla e niente se paragonata al momento in cui su questa materia esplosiva ti ci butti, senza paura di bruciarti, ustionarti, disintegrarti; e la sensazione, per quant’è esplosiva, è proprio di un incendio, dei sensi, del corpo, della psiche, un viaggio nel piacere assoluto, nella perdizione totale, un orgasmo sensoriale senza freni, senza freno a mano, senza marcia ingranata, in discesa libera, a folle.

Il maestro, artefice sommo di questa fantastica esperienza, si chiama Shinohara Hidekazu, e con la complicità di Wicky Pryan in cucina, regala momenti di libidine assoluta, vette di piacere, emozioni in ogni coordinata, perdita di senso dell’orientamento, la stessa scatenata dalle illusorie e plurime prospettive di questa casa, la casa dei colori proibiti.

Zero, Corso Magenta 87, Milano

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