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la città proibita

| danilo giaffreda

Da un lato, a scirocco, c’è il fronte compatto dell’architettura severa dei palazzi signorili ed ecclesiastici, una cortina monolitica di pietra scolpita dalla luce violenta del sole sul Mar Grande. Fino a qualche anno fa, ci si facevano affari immobiliari, appartamenti svenduti da chi voleva fuggire per sempre da quell’isola e dal suo oblìo, dal suo destino segnato. Ora abitarci è un lusso, la scelta di chi è convinto che le vere radici stiano lì, per legittimarsi un senso di appartenenza sempre più flebile. E i prezzi, naturalmente, si sono adeguati.

Sul lato opposto, sul Mar Piccolo, sferzato dalla tramontana e dimenticato dal sole, c’è il lato oscuro dell’isola, quello più duro e vero, il più vivace e febbrile: le case popolari, le attività commerciali di chi ha preferito non andar per mare, tutto il consueto campionario dell’improvvisazione e dell’abusivismo, i pescherecci  e le pescherie, le pietre che non si asciugano mai, vicoli angusti e bui che tagliano come ferite l’abitato e ti portano dritto all’inferno.

L’inferno ha porte e finestre accecate e mute, architetture ormai putrefatte di transenne e puntelli, vicoli murati, palazzi sfregiati da crepe e voragini, pochi violenti momenti di luce quando il sole, alto, riesce a trafiggere l’ombra per posarsi nelle case di pochi fortunati.

In mezzo c’è una strada maestra, la Via Duomo o Strada Maggiore, che lo affetta da oriente a occidente e gli dà tregua. Qui ci si affanna a nascondere i segni del tempo e del declino, a ostentare ipocritamente normalità e benessere. Di giorno ci trovi gli studenti e i professori dell’università, qualche bar, antiquari, un caffè letterario che è una scommessa, bei palazzi risistemati con funzioni pubbliche e una luce e un clima che hanno la forza e la dolcezza di sollevarti dal senso di angoscia e di impotenza che ti acchiappa ogni volta che attraversi il Ponte Girevole per venire qui in cerca di segni, di sogni e di radici svanite.

Ma non appena ti allontani, da questa retta via, ti perdi in meandri, labirinti allucinati di abbandono e degrado, di squallore e di miseria, di vita trattata male e di vite al limite. Una metastasi dolorosa di cui siamo tutti colpevoli, con la nostra indifferenza, la nostra indolenza, la nostra incapacità di immaginare e progettare un futuro, la misera caducità in cui abbiamo imprigionato il presente. La città nuova, la Taranto oltre i ponti, si ricorda della vecchia solo per le feste comandate o per qualche propagandistica manifestazione estiva. Momenti di euforia collettiva che durano lo spazio di una notte e lasciano a terra solo bottiglie vuote, cartacce e bave di cera consacrata che mettono a posto con la coscienza.

Eppure, tra questi vicoli ciechi, su scale che appena distingui nel buio di androni senza aria, dietro impalcature perpetue, sopra fondamenta divorate dalla salsedine e dall’acqua, la vita miracolosamente continua. Comunque la si voglia vedere e interpretare, è una vita fatta di vociare sguaiato, di rombo spavaldo dei motorini che ti sfiorano sfidandoti, di occupazione forzata dello spazio esterno per esiguità e invivibilità di quelli interni, di spaccio e consumo di droga alla luce del giorno, di botteghe trasformate in bische, di birra che scorre a fiumi e stordisce, ma anche di pescatori che sfidano ogni giorno il mare, di mitilicultori in lotta impari e continua con l’inquinamento, di gioia e pianto di bambini, di piccoli spazi sottratti al degrado e all’incuria, di reti cucite e ricucite dentro bassi malsani o in riva al mare, di giovani riuniti in associazioni per diffondere storia cultura e memoria, di difesa strenua di identità e riti come antidoto alla morte e alla perdita di coordinate e certezze.

Oltre i ponti, la vita, quella vera, è svanita da tempo. Da una parte, oltre il ponte di pietra, se l’è divorata l’industria, l’illusione del progresso e del riscatto sociale. Dall’altra, oltre il ponte girevole, la presunzione di un benessere e di una superiorità sociale smentita da una crisi senza precedenti ma ipocritamente negata.

Nel mezzo, l’isola, che attraversiamo sempre distratti, ansiosi di uscire o rientrare nel nuovo, con moto di stizza e impazienza, ci guarda come naufraghi senza bussola e sorride di noi. Fermiamoci, qualche volta, per capire da dove veniamo e come tornarci, e soprattutto per non morire insieme a lei. La vita è qui e non altrove.

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