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#speakinitaly: l’inglese che avreste voluto sempre parlare

| danilo giaffreda

Che la riunione al meeting  point di Firenze, sulla terrazza di un albergo centrale con vista mozzafiato sulla città, sarà un punto di non ritorno lo capisci poco prima di partire alla volta di Sarteano, nella campagna senese, quando Rustin – insieme a Faye uno dei due angeli custodi che accudiranno me e un manipolo di coraggiosi alla riconquista della lingua inglese – chiosa l’esposizione del programma con un consolatorio: “Essere oggi qui significa aver già affrontato, e superato, la parte più difficile del vostro percorso”.

Ma come – ti chiedi – dobbiamo ancora iniziare e siamo già a metà dell’opera? L’arcano si svela quando, salito sul pullman che ci porterà all’Abbazia di Spineto, vengo lanciato senza paracadute in una conversazione in lingua inglese con uno degli anglos, i nativi anglofoni in arrivo da tutto il mondo che da quel momento in poi, senza intermediazioni, compromessi e mediterranee concessioni all’indulgenza, ti metteranno a nudo coperto solo di quel che resta del tuo inglese sedimentato in anni di scuola pubblica, corsi privati, viaggi studio, corsi di aggiornamento aziendali, innamoramenti estivi, pen friend e film in lingua originale con sottotitoli.

Un inglese stentato, arrugginito, ignaro dell’ostico mondo dei phrasal verbs, infarcito di italiano a causa della scarsa dimestichezza con verbi e sostantivi che vadano oltre il frasario minimo di sopravvivenza, un italinglish che giustifichiamo raccontandoci che la pronuncia degli altri non anglofoni nel mondo non è certo meglio della nostra.

Magra consolazione, perché di questo inglese, durante i briefing mattutini che aprono le giornate di studio e nelle conversazioni con gli anglos che spaziano dalla politica internazionale alle tue più intime idiosincrasie che mai confesseresti fuori dal perimetro del divano dove stai sudando le fatidiche sette camicie, ti vergogni molto. Vorresti fuggire, tornare sui tuoi passi, fare rewind prima ancora di andare avanti e metterti ulteriormente alla prova.

A nulla valgono, all’inizio, la bellezza mozzafiato dei paesaggi intorno all’abbazia nella quale ti hanno alloggiato; la sua atmosfera senza tempo; la sensazione di familiarità che arredi e oggetti intorno, pur nella loro singolare ricchezza e straordinaria unicità, riescono a infonderti; la bontà e semplicità assolute delle pietanze servite a pranzo e cena in un clima di amicizia ritrovata; la gentilezza e la disponibilità del personale di servizio e dei tuoi compagni di viaggio; il sorriso sincero, sereno e benedicente della padrona di casa.

Poi, all’improvviso, a metà del percorso, quando le telefonate in italiano che varcano via etere i confini del cortile dell’abbazia ti sembrano l’unico conforto all’imminente sconfitta, inattesa e consolatoria arriva l’epifania. Come nella più classica delle esperienze maieutiche di socratica memoria, l’eloquio si fa improvvisamente fluido, la pronuncia sgorga perfetta, lingua palato e denti si sincronizzano miracolosamente suscitando moti di orgoglio tra gli anglos che fino al giorno prima scuotevano la testa rassegnati.

Quelli che ti sembravano giorni rubati agli impegni professionali e familiari diventano momenti irripetibili di arricchimento, i compagni di viaggio che segretamente deridevi per rimanere a galla diventano lo specchio dei tuoi progressi, l’inglese dato per sopito si fa spavaldo, azzarda ricercatezze, si lancia iperbolicamente alla ricerca spasmodica del tempo perduto.

Le conversazioni a tavola che sembravano condanne diventano amabili confronti, l’italiano che segretamente resuscitavi sfuggendo al severo controllo degli anglos fa lentamente spazio a dissertazioni colte in inglese, il rispetto e le gentilezza dei primi giorni diventano amicizia, intimità e confessione di debolezze, la nudità degli esordi cede il passo a una solida consapevolezza delle proprie capacità, quelle che sembravano nozioni scolastiche prive di futuro diventano trampolini di lancio verso potenzialità inespresse.

Se all’inizio il percorso di language immersion con Speak – si chiama così il programma di apprendimento intensivo dell’inglese senza lezioni né programmi prestabiliti a cui ho avuto l’opportunità di partecipare risvegliando un bagaglio di nozioni fatte cadere in un colpevole oblìo – appare avvolto da un’aura di incognita è nel passare dei giorni, nella progressiva abitudine alle conversazioni one-to-one con gli anglos, nello stimolo costante a utilizzare il gioco, l’ironia, la spontaneità e il relax sia nell’approccio con il public speaking (utilissimo nei rapporti professionali) che nelle conversazioni quotidiane (viaggi e tempo libero), nel sentirsi circondati quotidianamente dalla bellezza e serenità di paesaggi, ambienti e persone che concorrono a farti sentire a tuo agio, che il percorso scelto si distanzia progressivamente da un qualsiasi altro corso intensivo di lingua inglese e perde ogni rigida accezione scolastica e competitiva per diventare un’esperienza significativa e segnante di impegno, confronto e socializzazione.

Se all’inizio pensi che Rustin sia stato ottimista solo per infondere coraggio e guadagnare la tua fiducia, è l’ultimo giorno, quello del rientro, a darti il segno e la misura dei tuoi progressi: l’abbazia è diventata la tua seconda casa e fai fatica a separartene, i tuoi colleghi amici con cui ci si conosce e frequenta da sempre e il tuo inglese, manco a dirlo, il migliore del mondo.

www.speakinitaly.com

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