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l’opera al nero

| danilo giaffreda

foto Paolo Terzi

Per una volta inizio dalla fine.

La scena vede me, seduto a tavola in una sala di rara e misurata eleganza, in mezzo agli ultimi avventori, incapace di abbandonare un sogno, un rapimento, un’estasi. Tale è stata la cena da Massimo Bottura nella sua casa in Via Stella a Modena. Difficile da raccontare, impossibile da dimenticare.

Si potrebbe iniziare dicendo, per esempio, che tale e tanta è stata la gratificazione e la beatitudine e l’appagamento, che non mi è stato difficile rinunciare, alla fine, a un dessert dal nome allusivo di “Sud” che, alla carta, dalla descrizione, si annunciava a dir poco esclusivo, premiato non a caso a Lo Mejor de la Gastronomia, kermesse annuale di cucinieri d’alto bordo e d’ogni nazionalità in terra di Spagna: un elenco di ingredienti di quelli che ti chiedi come fanno a stare tutti insieme, talmente tanti e apparentemente inconciliabili che fai fatica a ricordarteli tutti e continui a ripetergli di ripeterteli, al paziente maitre arrivato stremato ma ancora lucido a fine serata.

Si potrebbe continuare dicendo, per esempio, che i singoli ingredienti non sono importanti nella cucina di Massimo, sono solo mezzi per arrivare a esprimere un mondo, un concetto, una filosofia, un amore, sono come i colori che nella pittura si amalgamano, si fondono, si compenetrano per diventare altro, raccontare altro, un mondo che alla fine ha un solo unico colore, così come i suoi piatti, alla fine, hanno un solo unico, straordinario, indefinibile sapore, sempre diverso, sempre sorprendente, sempre sintesi perfetta di un concetto che si voleva esprimere e che al meglio viene espresso.

E si potrebbe concludere, per esempio, dicendo che la casa in Via Stella dovrebbe diventare meta di pellegrinaggi culturali, alla stregua di una Galleria degli Uffizi o di un Guggenheim, un nuovo imperdibile indirizzo dove recarsi con muta e religiosa devozione a nutrirsi di passione, arte, cultura, studio, amore per il proprio lavoro, radicazione nel passato, sguardi sul futuro, quello a cui Massimo tende con tutte le sue energie, ma dove di fatto abita già da tempo.

Ma queste tre chiavi interpretative direbbero ancora poco della vena sovversiva e al tempo stesso conservatrice che scorre in questo recondito vicolo di provincia, paradigma di modernità e di consapevole e ricercata proiezione nel futuro.

E’ forse questo il motivo per cui stasera, nel comporre la mia personalissima degustazione, ho volutamente snobbato i classici della casa, quelli che interpretano nel migliore dei modi possibili il territorio, e mi sono lasciato catturare senza ripensamenti dalle proposte più hard in carta, quelle che dal già dal titolo mi hanno fatto immaginare storie nuove dall’esito inimmaginabile: il “risotto nero e grigio”, l’”omaggio a Monk” e, non c’è bisogno neanche di dirlo, l’irrinunciabile e obbligatorio e formativo “croccante di foie gras”, già entrato per smisuratezza di concezione e gusto nella storia della nuova cucina italiana.

E se nero è il tourbillon, intorno, delle assistenti di sala che mescono, portano e tolgono piattini, cambiano repentinamente posate e pani, si agitano in sincrono intorno alle rotondità dei tavoli, ti curano, ti scrutano, anticipano ogni tua minima intenzione di chiedere soccorso; nero, mi accorgo, è il colore dominante della serata.

Nero, in tutte le sue sfumature, è il colore del risotto, un piatto che nei suoi ingredienti racconta il mondo del lusso e lo trasfigura: è sfumato con lo champagne, è cotto nell’acqua filtrata di ostriche e non si fa mancare neanche una corona di perle di caviale Beluga, a marcare indelebilmente di nero un mare esclusivo e superbo ad uso e consumo di pochi eletti qui, stasera, una fredda sera d’inverno, in un entroterra che più entroterra non si può.

Nero è, ancora, lo specchio placido su cui è adagiato il trancio di merluzzo dell’ “Omaggio a Monk” che svela, sorbendolo religiosamente, gusti e consistenze abilmente nascosti, veri abissi di piacere: vorresti non avesse fondo questo mare nero, per prolungare ad libitum quest’estasi liquida che si concluderà necessariamente con l’affondo finale nelle carni candide e arrendevoli, di acrobatica cottura, del merluzzo. Una vera e propria composizione musicale che parte in sordina e poi esplode, note prepotenti e precise, inedite, che Massimo mutua dal jazz e restituisce sotto altra forma e linguaggio, in omaggio a uno dei suoi migliori protagonisti e, forse, sua intima ossessione.

E nero è, infine, il liquore nascosto nella corazza coriacea e amabilmente granulosa di mandorle e nocciole dell’ultimo peccato, l’apogeo della lussuria, l’apparentemente innocuo croccante al foie gras: lacrime concentrate di aceto balsamico tradizionale di Modena, extravecchio, con la sua vellutata acidità in amabile, perfetto e didascalico contrasto con la dolcezza suadente e fondente del gelato di foie gras.

Una vera e propria verticale del gusto, un’opera al nero: tre salti nel vuoto, nessuna rete a proteggermi, tre sciabolate a fare tabula rasa di luoghi comuni, stereotipi, pregiudizi. Ad enunciarli, questi tre check-point charlie del gusto abbattuti, appaiono laconici e riduttivi, ma sono, invece, epifanie del nuovo gusto, materia esplosiva che lascia il segno e soprattutto la voglia di ricominciare, stasera, a mangiare daccapo senza porsi, finalmente, troppe domande.

Osteria Francescana, Via Stella 22, Modena

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