il fine dining è morto? viva il fine dining!

A furia di sentirla decretare, sono ormai in tanti a credere alla morte del fine dining. Chi irridendola, chi piangendola. Eppure basta poco per capire non solo che non è mai avvenuta, ma anche che è difficile che avvenga. Semplicemente perché non conviene a nessuno. Non conviene alle grosse aziende selezionatrici e distributrici di eccellenze per l’alta ristorazione. Non conviene agli imprenditori della ristorazione che dal plusvalore della materia prima trasformata traggono utili non indifferenti. Non conviene a chi al fine dining si affida per rituali borghesi, per pranzi e cene di lavoro, per festeggiare, corteggiare, ostentare e ribadire status o, semplicemente, vivere un’esperienza indimenticabile. Non conviene, infine, a noi giornalisti o sedicenti tali, influencer, blogger e comunicatori del food system, perché – diciamolo – sui social e sui media tira sempre più uno stellato che un oste, anche se di talento. Quello che sta (finalmente) morendo non è il fine dining, ma il suo avatar, la sua immagine digitale, lo storytelling che ne è stato fatto svilendone il senso, ignorandone la storia, mistificandone il significato. Già, il significato. Letteralmente fine dining vuol dire mangiare bene, mangiare bello, mangiare raffinato. Tutte accezioni positive dell’atto del mangiare, quindi. E perché mai qualcosa di buono, di bello e di raffinato, seppur in gran parte mistificato, dovrebbe morire, sparire, estinguersi tout court? Cerchiamo di capire, piuttosto, cosa di bello, di buono e di raffinato resiste ancora nell’esperienza del mangiare, più specificatamente nella ristorazione, un settore che negli ultimi dieci anni ha subito una brusca accellerazione replicandosi in millemila concept e format nell’affannosa e ambiziosa ricerca di successo, affermazione e visibilità. Anche il fine dining è rimasto invischiato in questa dissennata corsa all’oro. Ignorando la storia e le storie emblematiche che ne hanno costruito il mito, molti hanno ritenuto più facile e sbrigativo cogliere e replicare solo l’aspetto glamour di quel mito, il bagliore, la superficie. L’obiettivo era, e per molti lo è ancora, épater les bourgeois. Sbalordire la gente. Non nel senso di stupirla e scandalizzarla con atteggiamenti anticonformistici o spregiudicati, come facevano i Decadentisti francesi alla Baudelaire e Rimbaud, a cui quest’espressione viene attribuita, ma – al contrario – impressionarla con lo sfarzo di un interior design ambizioso, l’estetica rarefatta degli impiattamenti, il sussiego della sala e degli chef e la prosopopea di una narrazione inutilmente verbosa. Mentre i protagonisti storici del fine dining erano intenti a dialogare intelligentemente con i tempi evolvendo modelli e offerta, il suo ologramma farlocco ha preso sempre più piede assecondato – suo malgrado – dalla più prestigiosa guida gastronomica internazionale, incensato da una critica più prona che pronta a smascherarlo e subìto da un pubblico convinto che quella sua allure intimidatoria e quella rigidità di busti e di gusti imposti facessero parte della liturgia. A cascarci, insieme a una clientela più confusa che persuasa, tanti giovani cuochi convinti che per sfondare, per guadagnarsi successo e gagliardetti, fosse necessario adattarsi a quel modello, rinunciando così ai pensieri autonomi, ai tratti identitari indipendenti e alla freschezza di idee, a ciò che, insomma, anagraficamente gli apparterrebbe. Il risultato, benedetto da esperti di marketing, agenzie di comunicazione e consulenti gastronomici, è stato un tripudio di cloni con arredi tutti identici, ingredienti iconici onnipresenti, piatti che inseguono tendenze e finiscono solo per scimmiottare, carte dei vini seriali, storytelling imbastiti su infanzie passate in cucina, nonne instancabili e prodigiose cuoche, passioni e dedizioni assolute alla ristorazione, sostenibilità, fornitori piccoli ed etici, filiere corte e controllate, rispetto e amore per il cliente. Quello stesso cliente che, a un certo punto, stanco di sentirsi sequestrato a tavola da degustazioni infinite, stufo di lunghe e pedisseque spiegazioni su ogni portata, di sommelier capaci di farlo sentire ma soprattutto rimanere ignorante, di gusti tutti uguali, di impiattamenti déjà vu e di conti esosi e sempre meno garanti di felicità, ha incominciato a disertare spostandosi su forme magari meno eleganti ma più appaganti di ristorazione o concedendosi – finanze permettendo – libagioni a lieto fine in templi garantiti da anni di onorata carriera e prodighi di professionalità, sorrisi e premure di ogni tipo nei suoi confronti. Risultato: tanti ristoranti gourmet progressivamente vuoti, molti mai decollati, chef che cambiano continuamente patron e patron che cambiano continuamente chef, conti che non tornano, contenuti social che affannosamente tentano di portare ossigeno al moribondo. Se una parte consistente di questo fine dining prêt-à-porter sta collassando travolto dalla miopia e dalla presunzione, quello vero, autentico, storico o intelligentemente ricalcato su modelli virtuosi e consolidati gode di ottima salute ed è in irresistibile ascesa. Il segreto? Nessuno, in particolare, se non la pratica elegante, disinvolta e avvolgente del senso più autentico della ristorazione: l’accoglienza. Termine tanto apparentemente semplice quanto complesso, riepilogativo di una combinazione di azioni e contenuti una volta irrigiditi e condizionati dall’etichetta, oggi snelliti da location certamente più cozy e familiari, da gerarchie finalmente orizzontalizzate, da relazioni complici e fluide tra sala e cucina, da piatti che dialogano col passato e col contesto ma sanno essere al tempo stesso contemporanei e apolidi, da servizi in sala lievi, informali e prodighi di attenzioni e chiarimenti on demand, da slanci di generosità che non sono compiacenza ma lucida considerazione della fiducia che il cliente – nuovo o devoto che sia – ripone scegliendo. Nessuna morte, quindi, quanto un leggero, passeggero e forse necessario malessere che sta inducendo a riflessioni e reazioni i bravi e i lungimiranti e penalizzando coloro che hanno dribblato identità, umiltà e coerenza diretti in porta a fare goal.
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