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elegia dublinese

| danilo giaffreda

Il fascino indiscreto dei gastropub. O come diavolo li chiamano da queste parti.

Dalle vetrate: le acque scintillanti del Liffey, solcate da esili, leggiadri ponti pedonali; lo scorrere incessante del traffico; le finestre sonnacchiose delle piccole case sul lungofiume.

Dentro, invece, l’atmosfera è chiassosa, la contiguità con gli altri commensali al limite dello spudorato, le luci basse e soffuse al limite del buio.

La sala, di elementare, didascalica sobrietà, appena rinvigorita dalla candida calligrafia sulle lavagne con piatti e calici del giorno, è affollata all’inverosimile, un babelico sovrapporsi e accavallarsi di dialoghi anestetizzanti il mio già debole udito, un crogiuolo di facce, razze, età e livelli sociali.

Il personale di sala, sorridenti giovanotti di fulvo pelo, è di sconfinata e disarmante gentilezza, nonostante ritmi, decibel e angustia di movimenti massacranti.

E infine – chi se no? – l’eroe della serata, indaffaratissimo e trafelato oltre il passavivande dardeggiato da alogene da campo di sterminio: lo chef.

La sirloin steak, la bistecca di filetto irlandese è sontuosa e di arrendevole sostanza. La cipolla rossa e la salsina al Blue Cheddar, al suo fianco, fedeli come paggetti. La birra, una Curim Gold di meritata patria fama, briosa come un beneaugurante brindisi. La ginger cake con gelato di pera caramellata, alla fine, golosa come una torta nuziale a festeggiare questa indimenticabile serata.

Fuori, forse, Dublino piange. Ma qui, nonostante tutto, la vita scorre allegra.

The winding stair, 40 Lower Ormond Quay, Dublino

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