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trippa: il diletto dell’onnivoro

| danilo giaffreda

Il giallo alle pareti è quello ormai codificato come “giallo Milano” o “giallo Piermarini”. Le cementine del pavimento hanno forma e colori della tradizione. Le sedie e i tavoli sono quelli solidi e imperituri della ristorazione d’antan. Tutto, insomma, compreso il bric-a-brac vario, le fotografie in bianco e nero e i litri in vetro per il vino sfuso (buono!) come quelli di una volta, vuole essere citazione e omaggio alle vecchie e autentiche trattorie milanesi.

Ma Trippa, il sogno vagheggiato e poi finalmente realizzato di Pietro Caroli, in sala, e Diego Rossi, in cucina, alle torride idi dello scorso luglio alle soglie di Porta Romana, non è né la vecchia trattoria milanese, né una trattoria tout court.

Laddove, allora, il servizio era brusco e sbrigativo al limite della sveltina, qui, invece, è accomodante, conciliante e soprattutto esaustivo sulle proposte in carta e quelle del giorno.

Laddove, allora, la frequentazione era tutto un brulicare di tute blu, scarponi antinfortunio, chiome impolverate e stuzzicadenti postprandiali, qui si mescolano con disinvoltura pensionati e famigliole del quartiere, professionisti e creativi, impiegati, bancari, amici degli amici di Diego e Pietro in transito da Milano e, novità assoluta, la neo-fauna degli chef, a pranzo nel giorno di riposo o a notte fonda per il calice della staffa.

Laddove, allora, tutto iniziava e finiva con un classico ma esanime vitel tonnè, un risotto appena passabile e l’immancabile spezzatino con verdure cotte, qui riappare pure il vitel tonnè – in versione smart con carne della premiata Macelleria Martini ed eterea salsa tonnata – ma a questo si accompagnano, fissi in carta o giornalieri secondo disponibilità di mercato, lampi di felicità in bilico tra haute cuisine e provocazioni finto-povere.

Come altrimenti definire il sapido tentacolo di piovra accompagnato da una densa e dolcissima crema di carote rosse di Polignano e una salsa di ciliegie,  preceduto da un paio di concilianti crostini con patè di fegato di agnello e composta di limone e seguito – scendendo di rango ma non di pathos –  da una fragrante trippa fritta riccamente salata e pepata? Cucina pop e top, senza pregiudizi, dove si mischiano pesci poveri in taglie king size (orgogliosamente esibite da Diego su FB), frutta e verdure di stagione, erbe spontanee e ogni diavoleria di quinto quarto di bovini e ovini; cotture da levarsi il cappello (non si passa indenni dal Bauer di Venezia, dal St.Hubertus dell’Hotel Rosa Alpina di San Cassiano in Badia, dalla Locanda Margon a Trento e da Le Antiche Contrade a Cuneo) e una spigliata e contagiosa predisposizione all’ottimismo, al rischio e – finalmente – anche al cliente.

A dispetto, quindi, di come vorrebbe apparire o appare, Trippa è in realtà un vero e proprio ristorante, gioia e diletto di ogni onnivoro che si rispetti e non teme di definirsi tale, senza intercessioni alle mode in irresistibile ascesa e affermazione. Un indirizzo dove si cucina e non si affastellano semplicemente crudité, dove  arrivano quotidianamente meraviglie da tutta Italia, dove si fa vera, sincera, ristorazione in un contenitore “schiscio” e non, come sempre più spesso accade, esercizi di stile in avveniristiche navicelle spaziali.

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