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senza assoluzione

| danilo giaffreda

foto di Davide Dutto

Strada impegnativa, lunga e tortuosa, ma alla fine ce l’ho fatta: fulgore di sole sui tornanti che solcano come calligrafia impazzita il verde delle colline e poi, all’improvviso, l’abbagliante riverbero del mare accentuato dagli specchi ustori delle serre.

Licata è luogo lontano, appartato, isolato, affacciato sul mare d’Africa, quello color del vino, quello di Sciascia: come ripetono quasi tutte le guide, non ci si passa per caso, non è luogo di transito, non ci si ferma perché si è stanchi della strada. A Licata ci si viene perché si vuole, fortissimamente si vuole, venire alla Madia di Pino Cuttaia, roccaforte strenua della nuova cucina siciliana in fondo alla Sicilia.

Sono in ritardo, imperdonabile ritardo, per via di indicazioni errate sulla strada da seguire, ma l’accoglienza è calorosa, sorridente, senza scadere nel confidenziale, però: sono ospite, sono rispettato, ma non perdonato. Non posso concedermi titubanze e ripensamenti sulla scelta dalla carta. Sarà Pino, con un menu degustazione a sua discrezione, a decidere cosa scoprire di lui. La cucina ha i suoi tempi e i suoi ritmi e il mio ritardo non li può dilatare: mi arrendo docilmente e, un po’ scetticamente, confido nella sua riconosciuta bravura.

foto di Davide Dutto

Il benvenuto è una cupola di minareto – e che altro poteva essere da queste parti? – un fiore di zucca con un’anima dolce di straordinaria ricotta, sormontato da una pigna di pesto siciliano e annegato in un lago cremisi di datterini: un compendio di mediterraneità per conciliare con il luogo, la casa, per dichiarare subito, senza ambiguità, da che parte si sta.

L’arrivo dell’antipasto scombina subito le carte e preannuncia che nulla sarà come appare: il piatto, presentato con luce di orgoglio negli occhi da Pino in persona, è un merluzzo al fumo di pigna con salsa agli agrumi e nuvole di acqua affumicata, pronta a dissolversi. Allora, senza perdere tempo, mi avvento e godo: dolce, salato, morbido, aereo e, come fumo, la materia in bocca si fa magicamente inconsistente eccitando papille e fantasia.

foto di Davide Dutto

Il fiore delle mille e una notte che arriva poco dopo in tavola è un carciofo spinello, presidio del territorio, con un cuore di gamberi di eccezionale freschezza, adagiato su salsa di acciughe: sfogli il fiore, arrivi al cuore, lo divori. Ma il vero divertimento sta nello staccare i petali grassi, carnosi, sugosi del carciofo e succhiarli, dopo averli intinti nell’oro dell’olio di Pianogrillo, presenza fissa in tavola a mo’ di mise en place. Il gioco è di sensualità estrema: i petali, mordendoli, rilasciano un umore tra il dolce e il delicatamente amaro, un velluto liquido da gustare con calma e voluttà.

La delizia a seguire, senza tregua, è un cannolo di melanzana “perlina” avvolta in croccante pasta phillo con scaglie di formaggio ragusano e salsa al pomodoro: un testacoda che riporta repentino alla terra, un piatto di tradizione con i prodotti straordinari del territorio, declinati in maniera minimalista ma incisiva dallo chef, un altro suo rispettoso e umile atto d’amore verso la propria terra e i tesori che questa generosamente dispensa.

L’ultima proposta prima dei dessert è, invece, una provocatoria rivisitazione del classico “pesce alla griglia”, l’abusata e spesso infelice proposta di gran parte dei sedicenti ristoranti “di mare” delle nostre coste. Quello proposto da Cuttaia non è esattamente “alla griglia”, anche se come tale appare e, soprattutto, profuma: è uno splendido trancio di ricciola cotto, invece, a bassa temperatura, adagiato su eterea purea di patate e irrorato con olio di cenere per scatenare la percezione di una perfetta cottura alla griglia, appunto, magari di quelle en plein air: un souvenir d’estate per un prematuro inverno, un ricordo di tavolate che sconfinano nella notte tiepida, avvolti dagli irresistibili effluvi di brace baciata dall’umore del pesce in lenta cottura.

Al primo dei dessert io, che amo l’arancia, mi commuovo, perché quello proposto è la quintessenza di questo straordinario frutto : il “gelo d’arancia” è sole d’inverno, luce ingabbiata per scaldare il cuore. Amplificato dalla nota gradevolmente amara della scorzetta grattugiata, l’esito è di rara piacevolezza, una riverberazione delle caratteristiche di questo miracolo della terra , qui prodotto in abbondanza e di straordinaria bontà.

foto di Davide Dutto

Al vero, ultimo dessert, arrivo stremato, con papille, apparato gastrico e neuroni freneticamente stimolati dalle serrate provocazioni del padrone di casa, instancabile e impeccabile nonostante la performance fuori orario a cui l’ho obbligato, ma siamo di fronte al vero, incontrastato, protagonista della pasticceria siciliana solo appena “contaminato” dalla mano lieve del suo autore: stiamo parlando, ovviamente, di Sua Maestà il cannolo siciliano, qui provvidamente rinfrescato da un gelato al Vecchio Samperi e preservato da ombre di stucchevolezza grazie all’astuzia di una fetta d’arancia disidratata e caramellata.

Un lifting d’autore, quindi, per un capolavoro barocco davanti alla cui compiutezza anche l’irresistibile istinto prestidigitativo di Cuttaia si arrende, perché a quest’autentico peccato di gola nulla è possibile aggiungere ma solo indulgere: Pino istigandomi, io consumandolo. Entrambi, purtroppo, senza assoluzione.

Ristorante La Madia
Corso F. Re Capriata, 24
92027 Licata (AG)
0922. 771443
prenotazioni@ristorantelamadia.it
chiuso il martedì e la domenica sera

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