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dalla città al cucchiaio

| danilo giaffreda

Il Salone del Mobile di Milano è la più grande e amata kermesse internazionale dedicata al design. Non sarà sfuggito, almeno agli addetti al settore, che negli ultimi anni il baricentro degli interessi dei visitatori si è sempre più spostato verso un mondo parallelo al design, ma non del tutto estraneo. Quello del food. Se prima si cercavano disperatamente inviti per i party e le cene private organizzate dalle aziende produttrici di mobili luci e cucine, le ultime edizioni hanno visto una progressiva e montante migrazione di massa dal Salone verso ogni forma possibile di offerta gastronomica. Dai truck e furgoni perfettamente attrezzati ai chioschi, dalle tavole calde alle trattorie, dai bistrot alle pizzerie, dai locali più di tendenza ai ristoranti stellati, dagli eventi in cui vengono coinvolti gli chef più mediatici alla bistronomia più hipster prestata alle serate più esclusive, trovare un posto e un pasto – anche solo per sfamarsi – è diventata un’impresa. Il food ha rubato la scena al design o, forse, gli ha fatto da stampella. Tramontata per sempre l’era del grande design degli anni ‘50 e ‘60, dell’imprenditoria illuminata e visionaria, delle provocazioni intelligenti e irriverenti di Memphis e Alchimia, degli indimenticabili allestimenti di Pallucco al Mattatoio, delle sempre sorprendenti sortite nel mondo dell’onirico del mago della luce Ingo Maurer e dell’ondata degli olandesi volanti prolifici di idee ma già attenti al branding e al marketing, le sorprese, il brivido, lo stupore, lo stand to see o l’evento to be latitano da tempo. Sempre bravi e stilosi i soliti Morrison e Dixon, sempre destabilizzante ma sempre più con misura il nostrano Novembre, sempre rigorosi ma sempre più internazionali i lombardi Lissoni, Citterio e De Lucchi, sempre più attento al business e meno a rendere il mondo più facile grazie al design il comunque amato Starck. Ma gli eredi di Ponti, Colombo, Castiglioni, Magistretti e Mari dove sono? In attesa di nuove epifanie, di nuovi messia, di nuovi dispensatori di brividi e riflessioni, ci si è rifugiati nel cibo, associandolo al design, sdoganandolo dalla terrestre connotazione di mera urgenza fisica. Galeotto fu il truck di Mauro Uliassi, antesignano di una tendenza diventata poi inarrestabile. Se prima si piluccavano salami e tarallini e si beveva prosecco a sbafo non senza un po’ di vergogna negli stand, in quegli stessi stand, al Fuorisalone, nei Design District che hanno saturato la mappa della città, il cibo si è trasformato in oggetto di culto: raffinato, colto, suggestivo, evocativo, di design, ma soprattutto a pagamento. Particolare che, contrariamente a quanto si possa pensare, non gli ha tolto il benché minimo appeal, anzi. Dalle patate fritte dagli olandesi con tanto di pelatura dal vivo a mo’ di happening dell’ultima edizione pre-covid alle rarefatte e algide atmosfere concettuali dei bistrot disegnati dagli interior designer milanesi più ricercati, si è passati senza dolore dall’industrial e interior design al food design. Si è passati senza colpo ferire dal programmatico “dal cucchiaio alla città” di Ernesto Nathan Rogers a un più prosaico “dalla città al cucchiaio” con buona pace di pionieri, padri fondatori e menti eccelse della grande epopea del design del dopoguerra.

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