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bros: il salento che non c’era

| danilo giaffreda

Entri e lo straniamento è totale. Potresti essere in Nord Europa, a New York o a Londra. Un gioco riuscito di sottrazioni e astrazioni. Uno spazio di decompressione in ricercato contrasto con la ridondanza del barocco leccese. Un’oasi di catartica modernità in mezzo al peso della storia.

Poi, con calma, metti meglio a fuoco e capisci. C’è la pietra leccese, dorata e morbida, alle pareti. C’è il legno di ulivo delle posate. C’è la trama inconfondibile del telaio sui tovaglioli. E c’è la ceramica, candida, con un filo timido di ocra sui bordi. C’è la Puglia, insomma. Anzi, il Salento. Quello tanto sbandierato come precoce brand di successo ma oggi in gran parte tradito. Mistificato. Violentato. In nome di un improbabile e malinteso progresso. In nome di una voglia irrefrenabile di buttarsi alla spalle emarginazione e povertà. In nome di un’ansia bulimica di riscatto. Sono orgogliosi, i Salentini. E pieni, spesso tronfi, di un’identità tanto forte da diventare ingombrante. Una identità messa a dura prova da una accelerazione della  storia che ha cambiato in fretta confini e concetti. Ma se finora ci si è lacerati tra la riluttanza al nuovo o, al contrario, un’accettazione sine conditio, oggi qualcosa sta timidamente – e fortunatamente – cambiando.

Bros, la recentissima ouverture leccese dei fratelli Pellegrino in complicità con la coraggiosa intraprendenza di Stefano Toraldo, imprenditore della nuova ristorazione salentina, supera gli schieramenti e va oltre, in autonomia. E’ un progetto che parte da lontano, da un passato remoto in campagna – quella dei nonni a Scorrano – a respirare e assaggiare una madre natura generosa e incontaminata, e arriva al passato prossimo nelle cucine di alcuni tra i migliori chef internazionali, a respirare e assaggiare tecniche, avanguardia e business.

Pareva stesse stretto, allora, l’arcaico Salento – immoto e remoto – a Floriano, Francesco e Giovanni. Troppo giovani, troppo inquieti, troppo curiosi per rimanere e aspettare. Poi, coraggiosa e inattesa, la decisione, la chiamata alle armi della crew strategicamente sparsa per il mondo ed eccolo, il presente: il manifesto dei Bros, la loro visione della loro terra oggi, senza compromessi e mediazioni. Un hic et nunc sospeso tra memoria e modernità, tra lampi di cucina di casa e nostalgia di geometrico rigore internazionale, tra gusti riconoscibili e passeggiate border line, tra amore fanatico e incondizionato per il Salento e la tentazione continua di adulterio.

Il racconto di questo nuovo Salento è un canovaccio da affinare e raffinare fatto di ingredienti  local e divagazioni global, haute cuisine e casalinghitudine, ricordi d’infanzia e i ricettari dei maestri  reinterpretati con lampi di meridiana originalità.

L’incipit è una carta d’identità geografica e affettiva – olive nere infornate e un burro di olio extra vergine da Coratina denocciolata di Savino Muraglia da spalmare su un pane caldo e fragrante d’indicibile bontà – quello che segue è un lungo e avventuroso viaggio che ripercorre le tappe del passato prossimo, ripensa a quello remoto e lo contamina, esibisce con giusto orgoglio l’ortodossia delle cotture classiche in tempi di monopolio di sottovuoto e basse temperature e prova audacemente a minare – non sempre felicemente –  i sancta sanctorum territoriali ricorrendo spesso e volentieri a reminiscenze esotiche.

Rimane impressa per originalità di presentazione e varietà di gusti alle soglie della schizofrenia la sequenza  di antipasti  tra i quali spiccano e svettano il nido di patate con patè di fegato di piccione adagiato su una profumatissima piantina di timo e il bon bon al cioccolato ripieno di Martini Dirty dalla lunga, lunghissima scia di freschezza e concilianti aromi.

Rinfrescano e solleticano piacevolmente il palato i piselli freschi con granita di mela verde e veli di seppia cruda, un viatico perfetto alla degustazione che verrà.

Gratifica prima l’occhio e poi decisamente il palato la delicatezza orientale del porro laccato con salsa di soia e arancia, sposato alla tapioca e alle foglie di prezzemolo fritto in un impiattamento tanto rarefatto quanto lussuoso.

Sorprende per l’arguzia risolutiva della bottarga  l’altrimenti pacata cipolla di Cannara caramellata con crema di pecorino, una proposta non a caso già tra gli hit della clientela a pochi mesi dall’apertura.

Conquista, nonostante una lecita diffidenza iniziale, un altro hit popolare in grande rimonta, la trippa. Sapida, speziata e densa in percentuali abilmente proporzionate, si nobilita di colpo e spicca il volo. Alto, altissimo.

Bello da vedere – calligrafico e coreografico – ma sicuramente da rivedere il fusillone Gentile con scampi crudi, scalogno pickled  e salsa al sesamo nero. Equilibrio e logica vacillanti per il piatto meno convincente dell’intera degustazione.

Minimalismo di forme ma esuberanza di sfumature e suggestioni nei due secondi, rispettivamente di pesce e carne. Cottura nipponica per il trancio di amadai sorprendentemente ritrovato dal pusher ittico di fiducia, in ascetica compagnia di patata e friggitello ad arrotondare la spinta “affumicata” della brace.

Cottura classica, rifinita in padella con burro noisette, per la costoletta di vitellino. Perfettamente rosolata all’esterno, esemplarmente  rosa all’interno, in rimpallo di acidità e dolcezza con l’indivia brasata e la composta – sublime – di mela.

Mani, cuore e presentazione di Isabella Potì – in arte Isa Osbourne – per il dessert,  un etereo soufflè alla barbabietola rossa, accompagnato da un gelato al latte di pecora e cumino, che è invito palese al peccato, gioco di seduzione, induzione alla resa finale.

Una resa in cui si rimane indecisi se concentrarsi esclusivamente sulla cucina o anche sul candore dello sguardo di Isa quando racconta tra passione e timidezza la sua preparazione.

Una resa in cui si rimane indecisi  se ripensare in solitudine ai sapori, le consistenze e le persistenze o prestare orecchio alla baldanza contagiosa di Floriano quando sciorina le idee e le scelte dietro e dentro ogni passaggio della degustazione, dal più piccolo e apparentemente insignificante amuse-bouche alle proposte più complesse e ambiziose.

Una resa in cui si rimane indecisi se cercare a tutti i costi un nesso identitario tra la tavola e lo spazio, tra le parole e i piatti, tra gli ingredienti di uno stesso piatto o lasciarsi semplicemente andare con leggerezza e trasporto a quella che, oggi, è sicuramente tra le esperienze più coraggiose e innovative del panorama gastronomico regionale.

Bros
Via Acaja 2 
73100, Lecce, Italia
0832 092601

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